Benvenuti nel sito di Giuseppe Pungitore, dell'ing. Vincenzo Davoli, di Mimmo Aracri ed Antonio Limardi, punto d'incontro dei navigatori cibernetici che vogliono conoscere la storia del nostro meraviglioso paese, ricco di cultura e di tradizioni: in un viaggio nel tempo nei ruderi medioevali. Nella costruzione del sito, gli elementi che ci hanno spinto sono state la passione per il nostro paese e la volontà di farlo conoscere anche a chi è lontano, ripercorrendo le sue antiche strade.

IN OCCASIONE DEL LIBRO DI FOCA ACCETTA
IL SERPENTE E IL DRAGO-RESOCONTI 1904-1927-
di  Vincenzo Ruperto


Ho letto con piacere l’ultimo lavoro di Foca Accetta‘ Il serpente e il Drago, Resoconto 1904-1927’, con piacere e ammirazione per la narrazione scorrevole ma densa di apprendimenti da lui prodotti su una raccolta di fonti storiche, all’apparenza non troppo importanti se non prive d’interesse, che riguardano la comunità francavillese. Reputo invece che queste fonti sono di grande interesse per chi vuole realmente conoscere la storia di un paese, sia recente sia enormemente passata, e sarebbe pretestuoso, se non ipocrita, disconoscere la loro grande importanza. Foca Accetta ha prodotto un lavoro encomiabile, da vero ricercatore storico e non da dilettante bramoso di farsi notare nel firmamento dei tanti “scrittori” di storia locale.
Foca Accetta ha prodotto numerosi libri che, partendo dalla storia locale, hanno profuso l’odore della storia calabrese con proiezione anche a livello nazionale. La crisi del mondo d’oggi non risparmia la cultura nelle sue varie diramazioni, è una crisi profonda, dove meritevoli scritti cadono nell’oblio perché la società è proiettata verso l’effimero, l’ignoranza di andata e ritorno dilagante in questo mondo di ‘pseudo acculturati’, ma titolati- è ciò che maggiormente conta-. Sono d’accordo con lo incipit del libro:’profumo del tempo intriso di…’, il mio commento è tutto in quei fiori che sbocciavano sui campi della nostra comunità all’inizio del 1900, quando gli eventi storici nazionali, le epidemie endemiche, le crisi economiche laceranti avevano prodotto tanti lutti e desolazione nelle famiglie, causando un vivere doloroso come se fosse una fatalità dalla quale non si poteva uscire, non è stato così perché la comunità ha saputo creare occasioni e momenti per uscire dall’oscurità, Ed ecco i festeggiamenti in onore del santo Patrono, ecco la breve e intensa parentesi che univa la comunità in tutti i suoi ceti, cosa che si risconta anche oggi secondo l’usuale e feconda tradizione con i pochi abitanti residenti e i tanti emigrati per le vie del mondo, solo che allora vi era una fiorente economia agricola che produceva lavoro  favorendo un circuito positivo con il mondo delle arti e professioni, oggi invece si vive in un mondo sconvolto dove quasi si viene a perdere quell’identità francavillese (riscontrabile forse in qualche sala museale. Meglio di niente.) Non sono uno storico e non voglio minimamente essere sfiorato dal pensiero di indorarmi con le penne…di qualche pavone. Sono un semplice lettore, ma un grande amante della cultura con tutte le strade, viuzze, rughe e ‘rughine’, un raccoglitore di memorie e fonti storiche che non vuole nascondere nei cassetti di qualche buia stanza…quello che ho lo do volentieri a chi meglio di me può trasmetterlo ad altri.
Non voglio farla lunga, segnando con l’evidenziatore ciò che mi piace o non mi piace, …il mio commento è solo…. totale e piena condivisione.
Il libro di Foca Accetta si ferma, con i resoconti della festa di San Foca, all’anno 1927. A tal riguardo mi corre l’obbligo di proseguire, con la documentazione scritta e orale, oltre il detto anno.
Il 16 marzo del 1929 si esibì per la prima volta, a un funerale, la banda municipale di Francavilla diretta dal maestro Majolo di Filadelfia. Evento culturale indubbiamente tra i più importante di allora e di oggi.
Il maestro Majolo, oltre che valente conoscitore dell’arte musicale, era anche un rimatore ‘spietato’ di composizioni poetiche ben fatte per colpire i suoi avversari.
Ecco come annunziò l’esordio della banda:

‘Lu sìdici de Màrzu do 29
nescìu na bànda nòva
a nu mortàggiu,
o làmpu mu li stòcca
chi coràggiu…’

Come il solito, atavico retaggio dei francavillesi, pur essendo in periodo dittatoriale fascista, non mancarono le inimicizie e le lotte tra le varie famiglie camuffate dalla solita irriverente politica paesana. Allora non esistevano elezioni comunali o partiti politici, il partito era uno solo (quello fascista) e le cariche ambire erano quelle del Podestà e del segretario di partito. Il Podestà era chi amministrava il comune, naturalmente coadiuvato da qualche impiegato e principalmente dal segretario comunale, in molti casi più importante dello stesso Podestà. Il segretario del partito era anche molto influente, doveva vigilare sull’attività dei ‘sudditi’, doveva propagandare la politica fascista (in verità a Francavilla non troppo efficace per la bontà nota dei ricoprenti tale carica, figuriamoci il dott. Vincenzo Servelli che non fu mai capace di far del male neanche a una mosca), sull’ordine pubblico (non tanto vigilato per paura di qualche pistola o fucile fumante che non mancarono). La vita comunitaria andava avanti con il lavoro dei campi, con i lutti e le gioie (specialmente amorose, come ricorda Vittorio Torchia nel suo libro ‘Il Paese del Drago’), con l’allevamento nelle pubbliche vie di galline e anche maiali che deliziavano il decoro urbano. Non vi erano allora allacci di acqua potabile nelle singole case, solo pubbliche fontane; qualche famiglia aveva l’allaccio alla fognatura e verso il vespero si vedevano schiere di donne con lo ‘Zipèppe’ sulla testa che andavano a divacare…..le timpe erano le più preferite. L’illuminazione insufficiente addirittura.
Mancante in certe zona rendevano pericolosa l’uscita notturna, solo qualche giovane ardente si avventurava, armato, a osare per qualche incontro galante ora vi sono altre sicurezze… e altre più comode occasioni sia comunicative, tipo FB o altre diavolerie del genere, si di libero movimento, tipo cavalli delle auto e altro…..).
In questo clima anche il maestro Majolo, nonostante fosse ‘ciunco’, non deambulante, si deliziava con ricche ‘tavolate con sazìzzi e supprassàte’ e qualche Maddalena non pentita….
Il ‘de otio’ del maestro non faceva decollare la bravura dei tanti allievi-musicanti. Si pensava di farla esordire in occasione della festa di San Foca, mese di agosto, ma la commissione ad hoc istituita decise di far venire una banda di altro paese, secondo la tradizione. Allora le bande musicali erano ben seguite e il pubblico era un po’ esigente, specialmente il pubblico dei più agiati. Era il comune, come giustamente detto nel libro di Foca Accetta, a tenere i conti per le spese da sostenere e sostenute. Il maestro Majolo e alcuni musicanti locali cominciarono…a battagliare, sostenendo che la banda era preparata per il debutto. Non fu d’accordo con lui uno dei principali artefici della formazione del complesso bandistico, don Vincenzino Grillo. Apriti cielo…cominciarono le roventi invettive del Maestro, gridando al complotto contro la sua persona.
Gli artefici del complotto, a suo parere erano le famiglie di don Francesco Grillo, del dott. Vincenzo Gulli, di don Vincenzino Grillo tra di loro parenti, e il cav. Vincenzo Solari, amico solidale dei Grillo (allora esattori). Il Majolo faceva discendere l’atteggiamento dei Grillo, dei Gulli e del cav. Solari, perche i primi erano in combutta con il farmacista Rondinelli di Filadeflia, cognato del dott. Vincenzo Gulli.
Le armi usare dal Majolo furono le roventi ‘poesie’ d’amore fatte circolare a Francavilla sia Filadelfia.
Ed ecco le armi usate (amorevolmente raccolte dal sottoscritto da fonti orali).

Contro il Cav. Vincenzo Solari:

‘Conosco un barbagianni
in questo letamaio,
che succhia da tanti anni
l’inchiostro al calamaio.

O popolo paziente,
non ti risorgi ancora
l’esoso prepotente
mandarlo alla malora.

Se avesse ancor vissuto
Il nobile Scipione
avrebbe reso muto
questo vile barbettone.

Contro il farmacista Rondinelli cognato del dott. Gulli:
‘Faccia de zìmmaru, stuòrtu ‘e natùra,
sì pe’ li gràvidi brùtta figùra.
Nd’avìmu vìstu ‘e sì tìpi fìni
sùpa li scàtuli de li cirìni.

Rachìticu nascìsti e straformàtu,
ripàru non si tròva chiù pe’ ttìa
Quant’èra miègghiu ‘u mi dàssai stàra,
io era cuòmu nu càna chi dormìa
e s’avìa ncun’àtra còsa de pensàra
‘u sàpa sùlu ‘a crìsi da càsa mìa

Ma mò chi mi jettàsti sa virgàta
ca de bòtta mi fìcia rivigghiàra,
io pròntu ti jettài na muzzicàta
‘u vìju si ti puòzzu avvelenàra.

Pungente e spietàto nei suoi versi non tanto però diffusi tra la gente. (Parte prima)

 

Vincenzo Ruperto

Il nuovo libro di Foca Accetta

- Ottantasei pagine che sono uno scrigno, un vero e proprio tesoro utilissimo nella ricerca antropologica culturale, un elemento prezioso per farci comprendere il "necessario", il cosa serviva, agli inizi del secolo scorso, per preparare una festa di paese in onore del santo patrono. Autore del volume "Il serpente e il drago, resoconti 1904 -1927 Festeggiamenti in onore di San Foca Martire, Patrono di Francavilla Angitola" è il ricercatore Foca Accetta, pubblicato per i tipi di Paprint - Libritalia.net di Jonadi. Nelle pagine del libro, riccamente illustrate, una serie di liste, suddivise per anno, conti delle entrate e delle uscite, rendiconti e resoconti minuziosi delle spese effettuate, delle uscite che specificano voci di ogni tipo, vere curiosità che oggi diventano preziosi spunti per capire, in modo più profondo, la realtà del tempo. Il volume di Foca Accetta è un utile strumento per chi si occupa di antropologia culturale e tradizioni popolari, l'autore, attraverso la presentazione di inediti documenti, analizza il rapporto fiduciario instaurato ab immemorabili tempore tra la comunità di Francavilla Angitola e San Foca Martire. Dagli scritti si desume che in quel tempo in chiesa si vendevano "paste, figure e voti", oltre le classiche immaginette di San Foca vi era la vendita di ex voto, dolci rituali e votivi. Le spese più notevoli riguardavano il compenso per l'allora innovativo "Cinematografo", per i fuochi artificiali e per le bande musicali. Tra il 1904 ed il 1927 a Francavilla Angitola suonarono sul palco allestito in piazza, e lungo le strade del paese, la banda di Nicastro, il concerto musicale di Villa San Giovanni, Paola, Tropea, Serra San Bruno, poi ancora Nicastro, Platania, Curinga, Marcellinara, Galatro, San Nicola da Crissa, San Pietro a Maida, Filadelfia, Cortale, la fanfara di Monterosso, la musica di Soriano Calabro ed i musicanti di Bagnara Calabra. Un trattamento particolare veniva dato al maestro o capobanda che riceveva anche un regalo in danaro definito "complimento". La banda oltre al compenso aveva diritto anche ai letti o pagliericci per i musicanti, il trasporto degli strumenti e del vestiario, alla corriera per il maestro e sottomaestro, i complimenti alla musica, il vitto e liquori. Le voci riguardanti la musica evidenziano anche zampognari, pifferai e tamburinari. Nel 1905 arrivano in paese tre zampognari di Monterosso, tre tamburi di Longobardi ed altri due tamburi locali di Francavilla. L'anno successivo ritroviamo una zampogna e acciarino di Maierato e quattro tamburinari. Nell'inedita lista ci sono poi i compensi per i fochisti e suoi discepoli, per fuochi artificiali, bombe, bajocchi e mortaretti per la festa, furguli e razzi per la novena, per il paratore e per gli apparati scenografici in chiesa. In quegli anni a Francavilla sono presenti famiglie storiche di fuochisti come gli Arena di San Pietro a Maida ed i Caracciolo di Cessaniti, più di 2200 i colpi esplosi per ogni festa. L'alto albero della cuccagna veniva allestito ogni anno, vi era poi l'illuminazione con le centinaia di lampade colorate a gas acetilene e le ville con i lumaricchi ad olio. Dagli scritti risultano anche tutte le minuterie che servivano per gli allestimenti in paese, il ferro filato, le canne, la corda, la canapa e lo spago, i punti di Parigi ed i puntini, le travi per i palchi ed i pali per i fochisti, mani di caciocavallo per la riffa (1913), la cera a chili e l'incenso, e poi marsala, anissetto, vermout ed altri liquori, vino, caffè e granite per la banda, per clero, paratori, fochisti ed altri ospiti arrivati a Francavilla. Per la stampa delle immaginette religiose si contano 3000 figure grandi ed 800 piccole nel 1904 in totale fino al 1927 vengono stampate circa 40.000 figuri, immaginette molte volte stampate presso la tipografia Apicella di Napoli, distribuite o vendute in chiesa, inviate all'estero ai francavillesi emigrati oltreoceano... Tirature di stampa davvero importanti per quell'epoca che testimoniano una devozione popolare forte presente a Francavilla Angitola, una venerazione grande per il loro grande santo, per il loro San Foca Martire patrono di Francavilla Angitola e di tutte le Francavilla Angitola sparse per il mondo.
Franco Vallone

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IL SERPENTE E IL DRAGO NUOVO LIBRO DI FOCA ACCETTA

Resoconti 1904-1927. Festeggiamenti in onore di San Foca Martire Patrono di Francavilla Angitola (Paprint,Libritalia.net, Ionadi 2016) è il titolo del nuovo libro di Foca Accetta, autore di numerose pubblicazioni di storia socio-religiosa della Calabria, pubblicato grazie sostegno finanziario dell’ingegnere Amerigo Fiumara.
In questo volume, avvolto in una elegante veste tipografica – il frontespizio ripropone un dipinto di autore ignoto del secolo XVIII, sistemato sul soffitto della navata centrale della chiesa, raffigurante il Martirio di San Foca – l’autore analizza e documenta il rapporto fiduciario instaurato ab immemorabili tempore tra la comunità di Francavilla Angitola, conosciuta come il Paese del Drago, e il suo patrono San Foca Martire, invocato contro i morsi venefici dei Serpenti.
L’analisi si basa su una serie di documenti inediti conservati nel Museo dell’Identità, ospitato nei locali di palazzo Mannacio in Francavilla.
In particolare sono esaminati e pubblicati una delibera del 17 aprile 1881, con la quale l’Amministrazione Comunale confermava San Foca Martire protettore di Francavilla, istituiva in suo onore la festa patronale nella seconda domenica d’agosto e nominava i componenti della “procura”, cioè i soggetti che si adoperavano ad organizzare i festeggiamenti, e i resoconti della festa agostana, redatti dai “procuratori”, relativi agli anni compresi tra il 1904 e il 1927.
Come sottolinea l’autore, tali documenti sono «unici nel loro genere e utili per un’analisi storica e antropologica delle feste religiose popolari», perché «sottolineano il lavoro svolto dei procuratori, il contributo dei devoti e la partecipazione del clero; evidenziano le sinergie messe in campo che, superate le teoriche e concentriche divisioni esistenti nella comunità (la famiglia, la parentela, la “ruga” e i quartieri dell’abitato), trovavano un punto d’incontro, la coesione identitaria all’interno e all’esterno dei confini del paese, nella figura Santo Patrono, venerato con tutta la solennità che l’occasione richiedeva nel giorno della festa».
L’azione di recupero e di valorizzazione della «identità religiosa» di Francavilla, promossa alla fine dell’800 dall’amministrazione comunale in sintonia con le autorità ecclesiastiche, non si concluse con l’approvazione della delibera del 1881, ma continuò attraverso la realizzazione di altre iniziative volte ad incrementare il culto e la devozione, cioè la pubblicazione di un volume postumo di Onofrio Simonetti (1794-1864) intitolato Cenno biografico sovra l’antiocheno Martire S. Foca, tipografia Raho, Monteleone 1892; la richiesta alla Congregazione dei Riti di una messa particolare, concessa nel 1884; la riproduzione dell’immagine di San Foca presso la tipografia Apicella in Napoli e la litografia Sauer-Barigazzi di Bologna; la realizzazione di quadri e statuette votive. Conseguentemente il culto di San Foca si radicò ulteriormente anche paesi limitrofi, e influì positivamente sull’economia locale, per l’afflusso di fedeli e l’istituzione di una fiera d’animali e merce varie.
In conclusione il lavoro di Foca Accetta, corredato da una appropriata appendice fotografica, costituisce non solo un ulteriore tassello nella ricostruzione della storia di Francavilla e dei lineamenti della sua identità religiosa e comunitaria, ma anche un serio contributo storiografico a beneficio di chi si occupa di antropologia e di feste popolari.

Marzo 2016

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Il nuovo libro di Domenico Sorace

     A mio giudizio, di semplice lettore, Domenico Sorace ha una bella penna. E lo dimostra ancora una volta con il suo ultimo romanzo Il cielo è azzurro come i tuoi occhi neri.

     Romanzo avvincente, a tratti, seducente, in una trama intima di pensieri che appartengono ad ognuno, di aspirazioni segrete e constatazioni disincantanti. Un romanzo classico e moderno, di sapienza meridionale e di respiro nordico. Racconta di una amicizia tra due ragazzi,  divenuti adulti, di incontri umani, di paesaggi suggestivi, di un tumultuare di sentimenti, e, sullo sfondo, un  movimento di spazio e di tempo, che richiama il senso dei luoghi e il senso della storia. Un romanzo moralmente pulito e pudico, perché dice cose vere e non falsità, esprime sentimento e non concupiscenza. Pagine che riflettono un “catechismo” umanistico, di seria humanitas, appreso tra il focolare domestico e le aule scolastiche, che ha plasmato la coscienza a virtù umane, anche se non pienamente segnate da una esperienza di fede soprannaturale.

     Un tema, dunque,  sempre attuale: l’amicizia. Che, soprattutto quando è quella nata nell’età più bella, lascia ferite sempre aperte dentro il cuore  nel momento in cui il demone inimicante devasta sintonie dell’anima. Un desiderio di comunione persiste. Avverti una assenza nell’essenza della tua vita. 

     L’inizio del romanzo è in una chiesa, dove il protagonista, celibe, agente di commercio,  si trova, solo occasionalmente, per assistere alla prima comunione della nipotina.  Un gesto rituale, il segno della pace, fa scattare dentro di lui un bisogno struggente di riconciliazione, con un’ombra che, ormai da trentanni, si agita dentro la sua coscienza, l’amico Manfredi  il quale <<risale dall’abisso, come carne viva>>. L’ite missa est, che conclude la liturgia, diventa veramente per il nostro una missio, un imperativo vibrante, un assoluto dentro la sua coscienza. Quando la messa è finita, si esce dalla chiesa per iniziare una vita nuova, che non è dimenticanza, oblio del passato, ma è, spesso, un saper tornare indietro, umilmente, per riabbracciare, per ricucire, quanto si era abbandonato, quanto si era, insipientemente, lasciato in sospeso. E ciò che accade al protagonista. Non avviene, ovviamente, per magia. Ma nella fatica di una metanoia, che si misura con le polarità della vita, con gli appelli della memoria, con l’autocomprensione. Ecco che parte subito, con la sua automobile, lungo il Bel Paese. Inizia la sua tensione verso l’altro e verso l’oltre.  Viaggerà dentro una geografia dell’anima e dentro quelle anime della geografia che sono le parole  e segni che ce la fanno leggere, identificare.  Viaggerà dentro la memoria, raccontando di mete fascinose del suo passato; camminerà verso il futuro, cercando la mano che vorrebbe stringere con desiderio di pacificazione; ascolterà e vedrà negli occhi della rumena Alba, come una giovane dantesca Beatrice che provvidenzialmente si affianca nel suo peregrinare, altre storie, altre attese, altre inquietudini, altre risposte. Tra lui e Alba c’è un gioco dialettico, tra etica ed estetica, dove l’etica riguarda i rapporti sociali, l’estetica la bellezza fisica di Alba o dell’opera d’arte. Le dinamiche della struttura socio-politica hanno il sopravvento, come pure la bellezza vista come seduzione dello sguardo. Il dialogo tra i due vorrebbe essere essenzialmente interiore, metafisico, e lo sfiora … manca la spiritualità, manca la mistica, perché assente la fede, “le esperienze della Grazia”, direbbe Gabriel Marcel.

     Tra meditazione e narrazione le parole ci coinvolgono. Ecco, per esempio, alcune sequenze nel corso dei capitoli, forti e originali, che esprimono quasi plasticamente questo itinerarium , tra disagio esistenziale, crisi dell’ Occidente, riscatto morale e ricerca di Dio. Si comincia dagli anni del boom economico, le famiglie godono di una maggiore agiatezza, ma questo clima si scontra, in brevi anni, violentemente, a livello sociale e politico, con una serie di problematiche antiborghesi. Il terrorismo è la negazione della libertà, l’ideoloatria distrugge le relazioni più vere, ti fa andare a senso unico e ti rende poi schiavo (cf p.81).  Una dolorosa confessione del protagonista avviene  davanti ad una donna sconosciuta (cf pp.88-89). A Pertosa, il suo scendere nelle viscere della terra diventa metafora di questo suo scavo interiore, l’esigenza di approfondire, andare al fondo delle cose (p.92). Così pure è da evidenziare la sosta a Marzabotto, dove avvenne la terribile strage di povera gente alla fine della seconda guerra mondiale (cf p.192). Il sangue che scrive la storia vera!


 

     E chioso ancora, leggendo con piacere. Questo romanzo di Domenico Sorace è denso di umana sensibilità, di un sentire metafisico, che parte dal contatto diretto con la terra, con gli uomini. Non è una storia d’amore, è l’amore, la passione civica, che legge la storia, la storia della nostra Italia degli ultimi 60 anni. Vedendo la storia, vedendosi dentro la storia di cui si è parte integrante, ecco il disincanto, l’apparir del vero, la demitizzazione. Non senza un severo esame di coscienza, personale e collettivo, che mette duramente e amaramente a fuoco la smania del potere, il vizio della menzogna, il pervertimento dell’amore.

     L’autore mi conduce con la sua automobile sui sentieri del tempo, aridi o fangosi, lastricati e asfaltati, viottoli o autostrade. Attraversiamo i tunnel bui del terrorismo in Italia, del comunismo in Romania, della Mafia e della Corruzione, Cosa nostra e Tangentopoli.. E mi invita a non essere solo “viaggiatore”,  ma a farmi  “viaggio”, a diventare io stesso speranza,  a diventare meta, novità. La vita è fatta di incontri per diventare un incontro. <<Solo l’amore apre la vita, le dà forma e sostanza>> (p.115).

     Questo “incontro” e questo “amore” nella penna di Sorace non hanno la maiuscola, ma rivelano una sorprendente esigenza teologica, anzi, di più, il bisogno di tenerezza divina. Vibra nella contemplazione della bellezza, anche in una opera d’arte: <<E’ la prova che l’eternità abita in noi e che ogni giorno, ogni istante, può esserne testimonianza>> (p. 178).Traspare nell’incontro con una icona mariana, nell’entroterra ionico, la bizantina odigitria,  colei che indica la via, venerata come la Madre che libera dalla catene: <<Scrutai le profondità di quello sguardo transumano e cercai di svelarlo. Fu come introdurmi in un tunnel oscuro, in fondo al quale, però, una luce fioca indicava la direzione. Solo che ebbi paura e, prima che la lucerna si mutasse in bagliore, mi scossi e tornai sui miei passi. Non ero pronto, troppo umano, troppo imperfettamente umano>> (p.223).  E’ presente in quello incessante, urgente bisogno di verità, che non è una argomentazione, ma, caso mai, è come un seme; afferma: <<qualcuno dice che le parole salvano o uccidono e che la vita ha senso se si pone al servizio della verità>> (p.246).

     Confida il protagonista all’inizio del romanzo : <<non ho mai avuto un buon rapporto con Dio>>. Nell’uomo inizia una nuova storia quando scopre che, da sempre, Dio ha avuto un buon rapporto con lui. E non lo chiama “servo”, ma “amico” (cf Gv 15,15). Lui diventa il solo e vero Amico. Così prega un mistico indiano: <<O Amico divino! Se pure le tenebre della mia ignoranza sono antiche come il mondo, fammi comprendere realmente che con l’alba della tua luce l’oscurità svanirà, quasi non fosse mai esistita>>  (Paramahansa Yogananda).

 

Filippo Ramondino

 

Domenico Sorace, Il cielo è azzurro come i tuoi occhi neri,  Adhoc edizioni, Vibo Valentia 2014, pp.262, E. 17,00.

 

Per maggiori informazioni scrivere a: phocas@francavillaangitola.com